mercoledì 29 febbraio 2012

"L'angelo Luna" di Rosario Runza


Punteggio 156/250  (6.2 voto)

Per scheda clicca: Qui

Un giorno di tarda primavera, nella quinta classe del liceo scientifico, di una delle più belle città della Sicilia, bagnata dal mare, ai piedi del più grande vulcano d’Europa, la professoressa di matematica, Barbara Leonardi, una giovane donna sulla quarantina, con la passione per l’archeologia, di media statura, dal fisico ben messo e dal fascino intricante, resa ancora più accattivante dagli occhiali a punta quasi privi di montatura che indossava durante le sue lezioni, aveva appena finito di spiegare e, come spesso succedeva, dedicava gli ultimi minuti della sua ora di lezione ai racconti delle esperienze vissute nei vari siti archeologici visitati:
«Oggi vi racconterò qualcosa che lascerà tutti a bocca aperta!» esordì Donatella Cognome, mentre i ragazzi si preparavano ad ascoltare con ansia, alcuni immaginando chissà quale tesoro avesse scoperto la prof.
«Tutto accadde la scorsa domenica, in una chiesa di Città dell’Olmo, durante la celebrazione della messa all’improvviso un grosso boato interruppe la funzione. Immaginate il caos più totale: in quella piccola chiesa tutti i presenti cominciarono a muoversi come delle molecole impazzite, a correre in tutte le direzioni per cercare l’uscita più vicina, molti urlavano, i bambini piangevano, il prete cercava di riportare la calma e, temendo qualcosa di molto grave, invitò tutti i fedeli a ritornare nelle proprie abitazioni. Dopo qualche secondo, dalla sacrestia fece il suo ingresso in chiesa il chierico che, bianco di paura in volto e sporco di polvere, gridava al parroco: «di là è caduto il pavimento, è caduto il pavimento!».
I ragazzi ascoltavano già tutti impietriti.
«Il caso volle che io passassi di là proprio in quel momento», continuò la professoressa con il sorriso sulle labbra.
«Fui insospettita da quelle persone che uscivano di fretta dalla chiesa, sembrava scappassero, e così decisi di posteggiare la mia auto e scendere per dare una occhiata dentro quella chiesa. Entrando, capii subito che era successo qualcosa, l’aria era irrespirabile e a mala pena si distinguevano gli arredi, tanta era la polvere che proveniva dalla sacrestia. Così, mi levai il foulard dal collo e, coprendomi la bocca ed il naso, mi avvicinai alla sacrestia; non riuscivo a credere a quello che vedevo: una voragine aveva inghiottito il pavimento dell’intera sacrestia. Ad un tratto la polvere che galleggiava nell’aria venne inspiegabilmente risucchiata all’interno della voragine; in quello stesso momento, si udì un suono cupo simile ad un lamento. Un brivido mi percorse dentro, lungo tutta la schiena, alcuni spaventati a morte se la diedero a gambe» narrò l’insegnante. «Rimanemmo solo in tre: io, il prete e il sacrestano. La curiosità di sapere cosa c’era in fondo a quella voragine divenne sempre più irrefrenabile; dopo che l’aria fu limpida, la visibilità ottima, mi guardai intorno quando, proprio sotto i miei piedi, notai alcuni scalini che portavano proprio all’interno della voragine.»
«Un passaggio segreto!?» Esclamò una delle studentesse.
«Proprio così. Iniziai a scendere quei gradini fin quando mi ritrovai in un corridoio sempre più buio. Il prete fu subito dietro di me, mentre il sacrestano con le gambe ancora tremolanti decise di rimanere in superficie. Più mi addentravo più si faceva buio e umido, fortunatamente la torcia a led che mi procurò il prete era abbastanza potente da illuminare di qualche metro il percorso avanti a noi. Una cosa mi colpì: più ci addentravamo e più i muri mi sembravano pareti di case; dopo pochi passi sulla parete alla nostra destra vidi una porta semi distrutta dalla muffa, cercai di far luce con la torcia verso l’interno e scorsi un tavolo con attorno delle sedie ben ordinate e nel muro di fronte una cucina in pietra con delle pentole sopra, il tutto ricoperto da ragnatele».
«Cosa diceva il prete?» Chiese un ragazzo con aria allegra.
«Recitava il suo Rosario» Rispose a tono la prof., destando le risate dell’intera classe.
«Continuammo ad andare avanti lungo il corridoio, dopo qualche decina di metri improvvisamente una grande apertura ci si presentò davanti, per terra c’erano pezzi di legno consumati dall’umidità e dal tempo. Oltrepassammo quella grande apertura, l’aria si faceva sempre più rarefatta, la puzza di zolfo diventava sempre più fastidiosa per le nostre narici. Alla mia sinistra, attaccata ad una parete, c’era una grande lucerna, con il mio accendi sigari a petrolio cercai di accenderla, tuttavia ciò che vidi dopo non mi piacque per niente. Ci trovavamo in una piazzetta all’interno di una specie di cortile, al centro, attorno ad un’antica colonna semi distrutta, una diecina di scheletri giacevano lì, immersi nel loro sonno eterno. Mi avvicinai, girai attorno a quel che rimaneva di quei corpi senza vita, uno di loro teneva stretto in mano un libro, la cosa mi incuriosì al punto che lentamente cercai con successo di sfilarglielo dalle mani ossee. Tra le pagine del libro trovai la piuma usata per scriverlo, lessi le ultime parole che trovai scritte e non riuscii a capirne il significato; sembrava una di quelle storie inventate, ma spacciate per vere. Decisi che era il momento di andare, presi quel libro e dissi al prete che per ora era meglio andar via; dovevo ritornare giù, ma con gli strumenti giusti ed una squadra specializzata», disse la professoressa, che con energia chiuse la cerniera della sua ventiquattrore e fece per uscire fuori dalla stanza.
«Aspetti» disse uno dei ragazzi, alzandosi dalla sua sedia «Non può lasciarci sulle spine in questo modo, deve finire di raccontarci la storia» continuò il ragazzo, ottenendo l’approvazione di tutti i suoi compagni di classe.
«E va bene, lo farò solo perché non credo a quello che ho letto» disse la Leonardi, avvicinandosi nuovamente alla cattedra sulla quale posò la ventiquattrore dalla quale estrasse un foglietto che lesse ai ragazzi: «Lei adesso è qui, in mezzo a noi, sta danzando con i nostri uomini, con le nostre donne; la musica sembra alimentare il falò attorno al quale noi giriamo, mentre il suo volto ci appare sempre più bello. Dice che da sempre ci osserva da lassù, fin dalla nascita dell’umanità; adesso è scesa tra noi, la sua bellezza ci addolcisce, i suoi movimenti ci incantano; tutti gli anni, sempre in questo stesso giorno, lei prende parte alla nostra festa, ubriacandoci della sua angelica bellezza, le sue carezze ci fanno cadere al suolo privi di sensi; adesso vedo che mi guarda, pian piano si avvicina, i miei occhi non possono che guardare i suoi, sento il petto scoppiare, come se il mio cuore volesse uscir via e andare da lei. Ecco, è a pochi metri da me, mi parla con la sua voce celestiale, non riesco a capire cosa ci fanno tutte queste persone per terra, non sento più la musica suonare, siamo rimasti soli, io e lei. Adesso lei vuole me, solo me, le ho chiesto chi era e mi ha risposto: sono l’angelo luna.» concluse la professoressa, quando puntuale si udì la campana dell’ultima ora suonare.
«Mi raccomando ragazzi studiate sempre la matematica» disse lei, mentre si apprestava ad andare via.
«Wahoo!!» esclamò uno dei ragazzi «Ho ancora la pelle d’oca» continuò rivolgendosi verso i suoi compagni.
«A chi lo dici…» rispose un altro di loro.
Quella stessa sera, Salvatore invitò un paio di amici per far un falò giù in spiaggia e divertirsi un po’, Lucia e Sofia si offrirono di aiutarlo ad organizzare la serata; nelle loro menti era ancora vivo il racconto della professoressa Leonardi, molte erano le domande che avrebbero voluto rivolgere alla professoressa, ma che la campanella non gli consentì di fare, lasciandogli un forte senso di inquietudine.
Mentre erano fuori a raccogliere legna per il falò della sera, Lucia rivolse il suo sguardo verso il cielo che, seppur ancora chiaro, già si stava riempiendo di stelle: la luna era lì, insieme a loro; dopo qualche minuto l’astro cambiò aspetto, sembrò sbiadirsi, sgretolarsi e diventare polvere luminosa, confondendosi tra le stelle.
«Gu-gu-guardate là, pr-prrresto!» disse Lucia, puntando il dito verso il cielo.
La ragazza assistette a bocca aperta al fenomeno che si stava verificando davanti ai propri occhi, ebbe a stento la forza per farfugliare qualche parola. Quando i ragazzi si voltarono, già l’effetto sovrannaturale della luna era svanito e i due videro solo stelle nel cielo. Salvatore e Sofia, però, notarono Lucia, era sconvolta, così decisero di rientrare in casa. Una volta dentro, Salvatore accese la TV: tutte le reti battevano la notizia della scomparsa della luna.
«Visto?» disse Lucia agitata.
In quel momento, i ragazzi sentirono un forte rumore provenire da fuori la finestra, le vetrine tremarono, il vento iniziò a soffiare, sembrava stesse per arrivare un brutto temporale.
«Oh mio Dio!» esclamò Sofia, «E se tutto fosse vero?».
«Ma no, queste cose non possono accadere.» rispose Salvatore, preoccupato dal fatto che fuori le condizioni meteo si stavano mettendo veramente male.
«Andiamo, vi riporto a casa.» continuò, mentre prendeva le chiavi dell’auto dal tavolo.
Una volta dentro la macchina, i tre notarono che le raffiche di vento erano talmente violente da fare oscillare l’auto del padre di Salvatore. Durante tutto il tragitto, le condizioni meteo sembravano peggiorare sempre più; Salvatore cercò, non senza problemi, di accendere l’autoradio: «E dai… parti!» disse lui, quando un urlo di Lucia, seduta dietro, attirò l’attenzione verso la strada, c’era una sagoma ferma al centro della carreggiata. Salvatore cercò di frenare, ma non riuscì ad evitare l’urto, la sagoma ferma al centro della strada fu scaraventata qualche metro più avanti.
«Oh no, cavolo!» esclamò Salvatore che pensò subito di essersi messo in guai seri, mentre scendevano tutti e tre dalla macchina.
«E’ una ragazza!» disse Sofia, che arrivò per prima.
Distesa per terra, immobile e priva di sensi c’era una ragazza, poco più che ventenne, dai capelli bianchi come la neve e dalla pelle rosea, alquanto strana, ma molto attraente. I tre ragazzi cercarono di rianimare la ragazza, Lucia le mise una mano sul viso, cercò di scuoterla un po’, ma nulla da fare. Anche Salvatore si mise a scuotere il corpo della donna e, dopo qualche secondo gli appoggiò un orecchio sul petto.
«Questa è morta!» disse il ragazzo con occhi spalancati e pieni di paura.
«Portiamola subito in ospedale» disse Lucia.
I tre giovani erano disperati, soprattutto Salvatore; Lucia prese il suo cellulare e stava per comporre il numero del pronto soccorso quando la giovane donna mosse la mano e la testa: era viva, ciò rianimò i cuori dei tre ragazzi.
«Ehi, ehi svegliati!» disse Salvatore, aiutando la ragazza ad alzare la testa, lentamente si stava riprendendo. «Non riesco a crederci: potrei mettere la mano sul fuoco e giurare di non avere sentito nessun battito del suo cuore». Ad un tratto la ragazza iniziò ad agitarsi, «Stai calma, è meglio che non ti agiti, potresti avere qualcosa di rotto, ti portiamo subito in ospedale» disse Sofia, cercando di calmare la ragazza che sembrò ascoltare il consiglio.
«No, niente ospedali» disse la ragazza, dall’accento sembrava straniera.
«Potresti avere qualcosa di grave» disse preoccupato Salvatore, mentre la osserva più attentamente.
A primo impatto, i tre giovani non si accorsero di alcuni particolari di quella donna, il bianco dei suoi capelli li aveva colpiti, ma non diedero molta importanza a tale particolari, preoccupati com’erano di averla uccisa. Non appena la donna misteriosa mosse la testa, una ciocca di capelli, spostandosi, mostrò alcuni segni che da dietro l’orecchio le scendevano giù per il collo, tutti li notarono, ma nessuno ne fece parola.
«Allora, ti portiamo a casa mia» disse il ragazzo, mentre con molta delicatezza la sollevava da terra, prendendola tra le braccia. La strana ragazza aveva una lunga veste, anch’essa bianca come i capelli e quasi trasparente. Non appena riprese i sensi, cominciò con il guardarsi un po’ intorno, poi guardò negli occhi di Lucia, poi in quelli di Sofia e, infine, in quelli di Salvatore: le loro anime erano pure e la cosa la stranizzò parecchio, da sempre era convinta che l’uomo capisse solo la distruzione e il disprezzo verso i suoi stessi simili, ma quella sera si dovette ricredere. Salvatore nel frattempo l’aveva adagiata delicatamente sul sedile posteriore della sua auto; Lucia e Sofia decisero di proseguire a piedi, visto che le loro case erano abbastanza vicine, quindi si salutarono e dissero a Salvatore di tenerle informate di qualunque novità.
Giunto a casa, Salvatore prese la ragazza sempre con molta delicatezza e la fece distendere sul morbido divano del salone a piano terra, la coprì con un plaid, tutte quelle attenzioni colpirono molto la donna.
«Perché fai questo per me?» chiese a Salvatore.
«Non’è nel mio stile investire le persone e lasciarle lì a morire» rispose lui.
Questa risposta e il comportamento di quel ragazzo fecero capire alla giovane e misteriosa donna che si era sbagliata sul conto degli uomini, che non tutti erano cattivi.
«Non sapevo che sulla terra ci fossero uomini così gentili!» disse la ragazza.
«Posso dirti che sicuramente ne esistono anche di migliori» rispose il ragazzo, con tono modesto, mentre i suoi occhi si perdevano nell’incantevole sguardo della ragazza.
Anche lei fu molto attratta da Salvatore; tra i due calò il silenzio, i loro occhi si guardavano, i loro corpi si avvicinarono, le loro labbra per un istante si sfiorarono.
«Fermo!» intimò la ragazza a Salvatore, «Non mi è permesso questo» continuò lei prendendo le distanze.
«Che ti succede, sei già impegnata forse?» chiese il ragazzo, per via di quell’improvviso scatto di repulsione che ebbe lei.
«No, non posso spiegartelo, non capiresti» rispose lei.
«Puoi sempre provarci» disse ancora lui.
«No, adesso devo andare» e si alzò di scatto.
«Aspetta, se ho sbagliato perdonami, ti garantisco che le mie intenzioni erano buone» disse lui, per recuperare da quel tentativo di baciarla che sembrò turbarla parecchio.
Quelle parole ammorbidirono ancora di più il cuore di lei e cambiarono del tutto l’opinione che lei aveva degli uomini; la giovane donna accarezzò Salvatore e si recò verso l’uscita.
«Lascia che almeno ti accompagni, la fuori c’è la tempesta» chiese il ragazzo.
«No, non preoccuparti, dove sto andando non puoi accompagnarmi» rispose lei, mentre usciva fuori.
«Non so ancora neanche il tuo nome» disse Salvatore, fermando la sua fuga.
«Luna» rispose lei svoltando all’angolo della casa di Salvatore. Questi si mise a correre per raggiungerla, ma quando arrivò all’angolo della casa non credette ai suoi occhi: la ragazza si librò in aria, dalle spalle le uscirono fuori due grandi ali sottili e bianche come i suoi capelli. Salvatore non ebbe più la forza di reggersi in piedi, tanto era stupefatto per quanto aveva appena visto, così si sedette in un gradino.

~ ◊ ~

«Luna, già di ritorno?» chiese una voce autorevole che rimbombò nell’intero universo.
«Si padre» rispose lei, mentre una lacrima gli solcava il volto.
Nel frattempo, nel buio dell’universo, sfumature chiare davano forma ad un grande salone reale, ove imponenti colone si ergevano verso l’infinito, al centro un’immagine luminosa dialogava con l’angelo sceso sulla terra.
«Hai fatto quello che ti ho ordinato?» chiese ancora la voce.
«Non ho potuto e per questo chiedo perdono» rispose lei, inchinandosi «Non avevo mai visto gli uomini così da vicino come questa sera, non sono tutti malvagi, molti anni fa mi hai fermato per lo stesso motivo, adesso ho visto che ancora molta gente sa amare il suo prossimo» rispose l’angelo Luna, facendo sorridere la voce eterna.
«Essi non hanno rispetto neanche di loro stessi, figuriamoci degli altri. Guarda come trattano il loro mondo, lo sporcano, lo inquinano, combattono fra di loro per futili motivi. Io non li ho creati per questo scopo» disse la voce, alzando un po’ il tono.
«Si, anche io dalla mia posizione, osservandoli dall’alto, non ho visto altro che il male in loro, ma non si può condannarli tutti per colpa di alcuni. Ci sono uomini, donne e bambini buoni e io non posso togliere loro la vita.» disse Luna, piangendo «Già una volta li hai puniti dando loro malattie, dolore e morte» continuò la divinità.
«Non mi era mai successo che uno dei miei angeli si innamorasse di un essere umano» disse la voce autorevole. «Lo ami fino al punto di andare contro il mio volere?» continuò la voce, alzando ancora di più il tono.
«Si, ed è per questo che io oggi lascio il regno immortale degli angeli» disse lei, sfruttando per l’ultima volta i propri poteri angelici, catapultandosi di nuovo sulla terra, in mezzo alle acque, vicino la riva dove si trovava la casa del giovane Salvatore.
«Non osare farmi questo» intimò la voce del supremo.
«Per liberarmi da questo peccato, ti cedo la mia celestiale essenza, padre» disse lei, ponendo le mani aperte l’una di fronte all’altra e convogliando al loro interno tutta l’essenza angelica che possedeva in una sfera di energia che scagliò con un semplice gesto verso il cielo stellato.
«Da oggi voglio essere una di loro» disse infine l’angelo Luna.

"Un favore da ricambiare" di Daniele Imbornone



Punteggio 143/250  (5.7 voto)

Per scheda clicca: Qui

Le mani infilate nella sabbia. Il sole coperto dai rami che formava geometrie irregolari sul selciato, i prati poco distanti colmi di facce felici e il laghetto sulla mia sinistra. Non ricordo un gran ché, ma so per certo che giocare con le formine e i secchielli d’estate, è sempre stato il massimo per me. C’era da sporcarsi parecchio e spesso i granelli mi entravano abbondanti nei vestiti, tuttavia, ciò non mi importava. Volevo divertirmi e passare un pomeriggio in compagnia degli amici, solo questo. In particolare di una: una bambina che incontravo spesso in quel parco. La ho davanti in questo momento; capelli dorati che le cadevano lungo volto segnato dal color ambra del luogo, e le mani impastate come le mie, impegnate a far sorgere la terza torre del suo castello. Non ricordo molto di quella mia vita passata, la memoria all’età di cinque anni non è molto funzionante. Ad ogni modo, per uno scherzo di pessimo gusto, il cervello ha impresso questa immagine nel mio cuore: quella bambina che ad un tratto mi veniva strappata davanti agli occhi prima che la sua opera fosse compiuta; la mano tesa verso la sua per cercare di trattenerla. Non ci riuscii, sfortunatamente.
Mi svegliai di soprassalto quella mattina, ansimante e coperto di sudore. “Un’altra volta quel sogno”, dissi quando realizzai. Era da una settimana che quell’esperienza mi veniva riproposta di notte; e ogni volta, i dettagli aumentavano. Quella visione era per me oscura e non sapevo dirmi il perché vedessi sempre e solo tale scena. Quella bambina della mia infanzia ... non so chi fosse né che fine avesse fatto. Mistero.
Il mio nome è Spencer, sono un ragazzo di 23 anni che studia scienze biologiche all’università di San Diego in California. Sono al quarto anno, e vi assicuro che studiare di giorno e lavorare di notte in una discoteca come barman non è facile. La vita di un ragazzo del ceto medio è piuttosto dura, sopratutto con genitori lontani e le spese dell’università che incombono. Ad ogni modo non mi lamento e sia la scuola che il lavoro mi piacciono. Non ho una ragazza e non mi interessa averla, non saprei come gestire il casino del tutto con una femmina alle calcagna, mi basta il cane del mio compagno di stanza; un Labrador Retriever. Esatto, è la stessa razza del cane della Scottex. Non fatevi però trarre in inganno dalla dolcezza di quell’esemplare; Roger è leggermente più grande e abbaia molto più spesso. Oggi ho quattro ore di lezione, due di genetica e altrettante di laboratorio di anatomia comparata 2. Una fetta di pane imburrato con due sorsi di succo, e sono pronto per mezz’ora di tram. Il tragitto è breve, ma se come me non sai come ingannare il tempo, l’attesa diventa eterna. Ci sono due modi per evitare il collasso: uno, studiare ... due (che è il mio preferito), ascoltare ciò che il lettore mp3 ti propone. Sono un tipo schivo e non molto socievole, ma anche un’associale come me ha il suo giro di amicizie. Il compagno di banco che mi tiene compagnia dal primo anno si chiama Jason, un mastino alto un metro e ottanta per 110 chili di peso. Stano a dirsi, ma è buono come il pane e non farebbe mai del male ad una mosca; tuttavia toccategli i Metallica e vi riempirà di mazzate. Ridendo, scherzando e prendendo appunti, il tempo vola, e senza che me ne rendessi conto, l’ora di uscire e tornare a casa giunse in un baleno. Arrivai a casa prima del previsto. Salii i tre piani del condominio e infilai la chiave nella serratura del mio appartamento. Immediatamente, appena poggiata la chiave, Roger iniziò ad abbaiare come un folle. “Oh, no ... nemmeno sono entrato e già questo stupido cane mi rompe le scatole.” Era il Labrador Retriever prima citato, un impiastro che voi non avete idea. Non è cattivo, l’unico problema è che è iperattivo e vuole sempre giocare. Il suo divertimento maggiore consiste nel mordere la mia povera tibia. Aprii la porta con cautela. “Buono, buono.” Faticosamente mi feci strada fino in cucina. Mi avvicinai al frigo e mi preparai un toast con quello che Hank aveva comprato il giorno prima. Un boccone di prosciutto anche al povero cane a digiuno dalla sera prima. Mi fiondai poi in camera mia chiudendo a chiave la porta per evitare sorprese, e mi misi a ripassare quanto fatto in aula quel giorno. Il primo esame del semestre è tra una settimana, devo mettermi sotto per superarlo almeno al secondo appello. Strano, non riesco mai a superare un esame al primo tentativo. Il mio cervello è come un motore diesel; ingrana pian piano, ma quando prende la giusta confidenza col terreno e la strada, è un fulmine. Due ore passate tra le pagine dei libri e dei quaderni, e sentii la porta di casa aprirsi. Era il mio coinquilino Hank, appena tornato a casa dal lavoro. “’Sera Hank”, gli dissi spalancando la porta. “’Sera bello! Allora, fatto i compiti?” Era il classico ragazzo di campagna; alto sul metro e sessantacinque, carnagione abbronzata (sempre anche in inverno), mediamente robusto, capelli corti come i miei e due occhi nocciola vispi e vivaci. “Appena finito. Non ne potevo più di studiare per questo schifo di esame”, esclamai. “Amico devi fare come me ... studia ma non tralasciare il divertimento, altrimenti i tuoi neuroni scoppieranno”, recitò col suo solito accento del sud. “Lavori in una discoteca da urlo! Divertiti! Porta una bella ragazza a casa e sfoga la tua rabbia repressa!” terminò con enfasi. “Hank lo sai, non sono il tipo”, asserii. “Ho capito, vorrà dire che rimarrai vergine fino alla fine dei tuoi giorni.” Va detto che il nostro caro amico, portava una ragazza diversa a casa un giorno sì e l’altro pure, e io devo sempre sopportare il fracasso e gli annessi con il cuscino pigiato a forza sulle orecchie. Decisi ad ogni modo di andare a letto presto quella sera, avevo bisogno di dormire molto. Domani dovrò lavorare, il che significa che mi potrò riposare solo dopo le cinque del mattino; se mi va bene.
Ancora una volta, accadde. Non so il perché, ma anche quella notte mi ritrovai nel parco. Stranamente la scena del sogno era diversa. Quel giorno il sole era coperto da fitte nubi e un temporale era alle porte. Giocavo con gli amichetti, a nascondino quella volta, e nonostante l’impedimento meteo, avevo intenzione di divertirmi con il poco tempo a disposizione che avevo. Dopo una breve ricerca trovai un nascondiglio perfetto: l’interno di un albero cavo. Con le mani piccole e sporche mi infilai piano al suo interno e mi sedetti su di una sporgenza. Ad un tratto però, mi voltai spaventato; avevo sentito un respiro sull’orecchio sinistro. Raccolsi tutta l’aria che i polmoni mi permettevano e mi preparai ad urlare. Improvvisamente, una mano mi bloccò la bocca e un piccolo dito mi fece cenno di non fiatare. Era quella bambina, la bionda creatura della mia infanzia. Per un caso fortuito avevamo scelto lo stesso rifugio. Sottovoce mi sconsigliò di gridare, altrimenti saremmo stati scoperti entrambi. Annuii, sorpreso e intimorito. I tuoni cominciavano a ruggire, e una lieve pioggia aveva iniziato a cadere placida ma inesorabile. Avevo freddo nonostante fosse piena estate. La bambina si aggrappò forte a me e urlò, evidentemente, la mia compagna di avventure temeva i lampi. Era chiaro ormai che il gioco non era più importante, era giunto il momento di tornare a casa. Mi alzai deciso per uscire. Lei mi guardò perplessa. “Cosa fai?” mi domandò gentile. “Torniamo dalla mamma.” Le porsi la mano per aiutarla. “Dimmi, come ti chiami bambina?” chiesi nel mentre lei afferrava il mio aiuto.
“Mi chiamo A ...” non riuscì a finire la frase, che una nuova voce sopraggiunse con violenza e imprevedibilità. “Ti ho trovata!”
Il sogno finì in quell’esatto istante, e io come al solito mi svegliai sudato e con i brividi. “Ancora ... perché continuo a sognarla?” mi chiesi passandomi una mano sulla nuca rada ansimando. Guardai la sveglia, erano le sei e mezza del mattino. Quel giorno non avevo lezione, decisi così di rilassarmi e di passare un po’ di tempo a non far niente. Ad ogni modo non ci riuscii, la visione di quella notte unita all’importanza dell’esame che era ad un passo, mi costrinse a mettermi a studiare per ingombrare la mente. Il mio programmino serale però, non subì cambiamenti. Come già accennato, dovevo lavorare. La discoteca dove mi guadagno da vivere si chiama: The Tentation, ed è la seconda più grande di San Diego. E` sempre affollatissima e i turni possono durare fino all’alba, e quando torni a casa, l’unica cosa che puoi fare è dimenticare il lavoro e pensare a dormire. Le consumazioni però sono gratis e puoi fare quello che ti pare quando il tuo turno finisce. Una ricompensa in più oltre il solito stipendio che non è affatto male. Esco per le cinque del pomeriggio e mi avvio con calma. Non è lontana dal mio appartamento, ma arrivarci è dura, soprattutto nell’ora di punta, soprattutto il sabato. Proprio per questo esco prima del previsto. A destinazione, ad accogliermi c’è come sempre David, il buttafuori. Un ragazzo di ventisei anni che lavora qui il sabato e la domenica. Come il mio compagno di università, è molto robusto e piazzato, e non appena ti becca a fare qualcosa di sbagliato, non si fa molti scrupoli ad appenderti ad un attaccapanni. “Ciao Spence!” mi salutò lui. “Ciao David, turno duro oggi eh?” scherzai io. “Amico, io faccio sempre e solo i turni duri, altrimenti voi poveracci non riuscireste a cavare un ragno dal buco.” Risatina generale. In fondo David aveva ragione; senza di lui, la sua stazza e la sua vista a 360°, il locale sarebbe nei guai. Alle otto inizio, ad ogni modo la discoteca si riempie sempre prima del previsto. L’ora di punta al The Tentation giunge alle dieci – dieci e mezza. Prima di allora le cose sono gestibili, ma il problema esplode e diventa tragedia alle undici e resta tale fino alle due – tre. La musica e le luci stordiscono tutti, anche uno che ascolta il rumore puro come me. Tuttavia, sfortunatamente non ho mai tempo per gioire con le canzoni che il DJ piazza sulla pista. Le mani, il cervello e la mia attenzione sono sempre rapite da bicchieri e liquori. Non vi faccio la raccolta di cocktail che faccio perché non basterebbero dieci pagine. Quella sera me la cavai bene, e alle due e mezza la fase critica scemò. Alle tre staccai. Guadagnai parecchi extra, e dopo una pausa di venti minuti passata ansimando come Roger sorseggiando un Mojito, mi apprestai a fare ritorno al mio nido. Zaino in spalla e cuffie nelle orecchie salutai tutti e voltai l’angolo della strada, quando ... un urlo assordante rapì la mia attenzione. Mi misi istintivamente a correre allarmato in direzione del fenomeno, e in un vicolo stretto e poco illuminato focalizzai un inconveniente. Due uomini si accalcavano e fremevano contro qualcosa. Digrignai i denti e serrai i pugni. Avevo capito tutto anche senza sapere niente. Sferrai un pugno in faccia al primo: un ragazzo basso ma robusto e lo allontanai da una figura più piccola rannicchiata e tremante. “Ehi ma ...”, il secondo mi prese da dietro con una morsa al collo. Istintivamente gli tirai una gomitata alle costole, mi liberai e infierii con un calcio all’addome e due pugni sul muso. “Via!” urlò il primo. L’amico ancora stordito e sanguinante gli andò dietro zoppicante e nel giro di due secondi, il silenzio tornò a regnare. “Tranquilla, è tutto a posto”, dissi a colei che avevo salvato. Non si vedeva molto, ma mi accorsi subito che era una ragazza, molto spaventata e impaurita. Le sorrisi con il mio sorriso migliore e le porsi la mano. Lei prima guardò la mia appendice tesa e poi il mio volto. Tempo un paio di secondi per riordinare le idee, e la afferrò. Le vibrava con forza e la pelle era sbiancata più di un cencio. La sua piccola e fredda mano mi diede una scossa elettrica, e un brivido gelato mi corse ovunque quando ci toccammo. Nonostante tutto la tirai su, ma le ginocchia non le ressero e se non fosse stato per il mio torace ad un passo, sarebbe crollata a terra; gli occhi socchiusi e i lunghi capelli sul volto. “Stai bene? Ce la fai a camminare?” Non mi rispose, ma era evidente che la sua risposta sarebbe stata un no. “C’è nessuno qui?!?” urlai ai quattro venti. Solo la solitudine del nulla ad attanagliare quel vicolo e le strade vicine. “Come ti chiami?” Altro vuoto di parole, e la voglia di svenire della mia vicina sempre più prossima. “Devo chiamare la polizia.” Presi il cellulare dalla tasca sinistra e composi il numero. “No ...” La creatura che avevo protetto afferrò il telefono e mi fece abbassare il braccio. “Niente polizia.” Rimasi imbambolato per qualche secondo. Cosa fare in quei casi allora? Non lo sapevo affatto. Lasciarla in custodia alla discoteca non era un’idea saggia, soprattutto perché sembrava essere molto graziosa. La polizia era la scelta migliore, tuttavia lei sembrava voler scartare l’opzione.
Il dilemma era forte e il bandolo della matassa molto ingarbugliato. “Non so cosa fare ... qui non posso lasciarti. L’unica soluzione è portarti a casa mia.” Lo dissi nella mente, ma inspiegabilmente il pensiero mi uscì sottoforma di suoni. “Porca miseria!”, infuriai realizzando di aver combinato un pasticcio più grande di quello appena passato. “Mannaggia a me e alla mia boccaccia, si sarà fatta un’idea di me pessima! Il solito accattone di ragazze sporcaccione. Perfetto ...” Mi aspettai uno schiaffo o peggio, ma inspiegabilmente non accadde niente dei disastri da me immaginati. Voltai la testa e ne scoprii il motivo: era svenuta tra le mie braccia. Fortuna volle che per tutto il tragitto non incontrai anima viva. Camminare con quel peso sulle spalle non era il massimo, ma almeno sulla schiena un qualcosa di morbido mascherasse il tutto. “Accidenti! Basta pensare a certe cose!” Raggiunsi finalmente il mio appartamento e salii i tre piani con la sola forza della disperazione. “Ringrazierò mille volte il cielo che Hank sia in vacanza a casa dei suoi ...” Superai il corridoio e adagiai la ragazza sul divano del soggiorno. Accesi poi una lampada. Era splendida, viso angelico e tratti da modella. Le forme erano sinuose e le curve poste nel posto giusto e nella giusta misura. Capelli lunghi fino alle spalle di un biondo abbagliante e una bocca rosa incredibile. Ingoiai la saliva in un colpo solo e quasi mi strozzai. “Dannazione controllati Spencer! È svenuta e non la conosci affatto!” mi dissi tirandomi un pugno in testa. “A letto! Sì, devo dormire e non pensare a niente. Domani vedrò di fare qualcosa.”
Il giorno successivo, o per meglio dire; quattro – cinque ore dopo, mi svegliai di soprassalto. “Strano, non ho sognato ancora quella bambina”, dissi stropicciandomi gli occhi. “A proposito di femmine!” Balzai giù dal letto e andai in soggiorno. Non c’era nessuno! Le coperte erano state tolte e sistemate in un angolo del divano. Subito immaginai mille avvenimenti nefasti e apocalittici. Scappata, rapita da quei brutti ceffi del vicolo, e ... altre cose che è meglio non dire. Ad un tratto udii un rumore provenire dal bagno. Era uno scroscio d’acqua, la doccia. Tirai un sospiro di sollievo mentale e mi rilassai. Preparai con calma la colazione per due e attesi nel corridoio a braccia conserte. Non ci mise molto, giusto dieci minuti. Ad un tratto la porta si aprì e una piccola nube bianca invase il corridoio e i muri giallo sporco. Istintivamente mi mossi furtivo verso il salotto e mi buttai per terra per non farmi vedere. Non seppi fornire un spiegazione per quel gesto, istinto forse. Incredibile, mi stavo nascondendo in casa mia! Sbirciai. Capelli bagnati e il mio accappatoio addosso. Un salto al cuore mi rapì, indossava il mio accappatoio! Involontariamente tirai una gomitata allo stipite della porta. “Chi c’è?” Sobbalzai. “Accidenti, mi ha scoperto.” Non avevo niente da temere, è casa mia dopotutto. Mi feci vedere infine, sguardo basso in contemplazione del pavimento e un’espressione da ebete in volto. “Scusami, ma avevo proprio il bisogno di fare una doccia,” esclamò la ragazza con fare dispiaciuto. Spalancai la bocca dalla sorpresa e dall’incredulità. “F – figurati ...” replicai. “Dopo pulisco io”, dissi. “Grazie mille per ieri”, asserì l’angelo biondo. Fece un profondo inchino e i meravigliosi capelli mossi le caddero oltre la nuca. “Non so cosa ci facevo in quel posto, e non so nemmeno il motivo mi trovassi in quella città, ma ti sono debitrice mille volte per il tuo gesto.” Altre sorprese inattese. “Non ci pensare più”, avanzai agitando la mano per mandare via quelle parole così in necessarie e per me inattese. “Basta che sia tutto finito e che tu stia bene. A proposito ... posso sapere come ti chiami?” Non so perché, ma non appena posi questa petizione, la mia vicina si rattristò molto e chinò il capo con una bizzarra espressione addolorata. “Ti sembrerà strana come cosa ... ma non lo so.” Shock ovunque, quella risposta in me ebbe l’effetto di far sorgere un’infinità di domande nel mio cuore. “Come sarebbe? Hai perso la memoria?” volli sapere. “Non so cosa risponderti. Può essere.” La faccenda non mi piaceva affatto. Era troppo strano da credere; poteva anche essere uno sporco trucco per imbrogliarmi. Io per simili espedienti avevo un vero sesto senso, tuttavia, qualcosa mi diceva che quello non era un caso di quel tipo. Dovevo però stare in guardia e scoprire il più possibile su quella ragazza. Non la avevo mai vista prima; né in discoteca e nemmeno in giro o all’università. “Da dove vieni? Almeno questo lo sai?” domandai. “Scusa, dove sono i miei vestiti? Non vorrei rimanere in accappatoio per tutta la mattina”, scherzò lei sorridendo amabilmente dimenticando il broncio. Quando sorrideva era ancora più radiosa. Non seppi dirmi il perché, ma mi ricordava qualcosa. “Certo, vai in camera mia, te li porto subito”, dissi imbarazzato scordando magicamente tutte le domande che volevo fargli. Così ci lasciammo. Io tornai in salotto e raccolsi da sopra una sedia i vestiti che vi trovai. La mia misteriosa ospite invece, andò dove le avevo indicato e aspettò il mio ritorno. “Grazie.” Io mi nascosi dietro lo stipite della porta socchiusa rimuginando ancora, la ragazza invece ... beh, credo che stesse iniziando a vestirsi. “Emh, come posso chiamarti allora? Non sai il tuo nome e nemmeno che ci fai in questa città, come facciamo per comunicare?” chiesi. “A me sembra che comunicare non sia un problema”, sorrise lei distante. “Ma se proprio vuoi, prova a darmi te un nome, prometto che non mi lamenterò. Scegli bene però, non vorrei che in mezzo alla gente ti rivolgessi a me chiamandomi Genoveffa.” Scoppiammo a ridere entrambi. Era simpatica oltre che bellissima, con uno spiccato senso dell’umorismo. Iniziai a pensare ad un nome. Strano che mi avesse dato questo compito, ma ormai la stranezza faceva da padrone all’interno di quelle quattro mura domestiche. Voltai la testa pensieroso, e per uno strano gioco del destino, la mia attenzione ricadde sullo specchio che faceva da cornice al corridoio. Spalancai gli occhi impietrito. Si vedeva l’interno della stanza! Riuscivo a vedere il letto, il tavolino e la scrivania; ma soprattutto ... riuscivo perfettamente a vedere quella meravigliosa visione. Girata sulla destra che indossava solo l’intimo. Il cuore iniziò a battermi come un treno e divenni rosso più di un peperone. Fisico da modella statuaria, lineamenti perfetti senza una sbavatura e un viso da principessa delle favole. Chiunque avrebbe ucciso per avere quell’angelo nella propria stanza. Non sembrava essersi accorta di me; fortuna immensa dovetti ammettere. Afferrò poi il pantalone di jeans e lo infilò, infine, si voltò di spalle per prendere la maglietta. Fu allora che scoprii una cosa a dir poco shoccante. Sulla pelle che faceva capolino dalle spalle ... qualcosa di macabro era visibile. Due cicatrici lineari, sicuramente molto profonde, che partivano da sotto le spalle e percorrevano le scapole per intero scomparendo solo dopo di esse. “Che – che diavoleria è questa!” pensai immediatamente. Cosa significava tutto ciò? Torture cinesi? Una vecchia vita difficile che aveva lasciato segni indelebili su quella povera creatura? Non sapevo che dire. Una soluzione più fantastica e fantasiosa mi folgorò poi, ma non poteva affatto essere presa sul serio. “Allora? Sto ancora aspettando il mio nome”, avanzò lei da dietro la porta. Venni riportato alla realtà in modo brusco e i miei pensieri cessarono di caricare nella mente.
“A – Angelica ...” Lo pronunciai di getto e senza pensarci. Ad ogni modo, quella visione dipingeva perfettamente ciò che avevo formulato dentro: due ali d’angelo ... strappate. In quel momento la porta si spalancò completamente, e la ragazza si pose davanti ai miei occhi verdi e li scrutò avidamente con i suoi blu cielo. “E` un nome bellissimo, grazie.” Dopo quel momento parlammo moltissimo. Ci presentammo ufficialmente, e Angelica accettò il nome da me scelto. Non svelai la mia scoperta e non ebbi il coraggio di domandarle nulla. Non volevo avere niente anche fare con quella storiella da me fantasticata; magari, la tortura cinese era la triste verità. Ad ogni modo parlammo di tutto il resto. Gli raccontai praticamente tutto di me, della vita che facevo e di molto altro ancora. Strano a dirsi, ma Angelica sembrava essere molto interessata alle mie parole, e ad ogni mio intervento voleva sapere dettagli e retroscena, come se si nutrisse solo delle mie sillabe. Per quanto riguardava la sua vita invece ... Angelica non seppe dirmi niente. Mistero su tutto. “Non so dirti da dove io venga né dove andrò, so solo che ho un compito da svolgere, ma tuttora non conosco quale esso sia,” asserì quando le posi la domanda. “Compito?” replicai io. “Una missione intendi?” La ragazza rise. “Possiamo chiamarla così se ti piace.” Senza che lo percepissi, si era fatto tardi. “Dannazione! Sono le undici, devo andare in facoltà!” urlai balzando in piedi, spaventando la povera Angelica. “Facoltà? Cosa sarebbe?” domandò stranita. “L’università, devo andare in classe.” Lei mi guardò di sbieco non capendo, ma non avevo tempo per spiegare. Bizzarro che non sapesse cosa fosse un’università; ma archiviai il tutto colpevolizzando interamente la sua amnesia. Dieci minuti, e fui pronto per uscire, cartella alla mano e cuffie nelle orecchie. “In frigo ho qualcosa da mangiare, serviti pure con quello che più ti piace. Pomeriggio passerò dal supermarket e comperò qualcosa di meglio”, dissi incespicando nei lacci delle scarpe. “Non posso venire con te? Mi sento strana a stare da sola e ho ancora paura per quello che mi è successo ieri.” La giovane lo disse piano e con occhi bassi. Ripensava sicuramente a quella brutta esperienza. Sfortunatamente, non acconsentii. Non ragionai molto sulla cosa, ma sapevo che ero in un ritardo mostruoso e che non potevo permettermi di saltare lezioni, non le prime due perlomeno. “Mi dispiace ma ti annoieresti a sentire parlare di chimica e statistica, sono due materie che nemmeno io capisco bene. Finiresti per peggiorare la tua amnesia te lo garantisco.” Detto questo, serrai piano la porta, girai la chiave e scesi le scale. Per precauzione chiusi tutte le cose di valore dove non poteva trovarle. Gentile e amichevole ok, ma stupido e ingenuo mai. Arrivai in facoltà con solo cinque minuti di ritardo, ma per fortuna il professore non era ancora in classe. Riuscii così a rilassarmi e a sedermi accanto a Jason. Iniziammo a parlare del più e del meno. Discutendo, arrivammo su un argomento piuttosto scottante. Ero conscio del pericolo, ma volevo avere la sua opinione. “Jason, dimmi una cosa: cosa faresti se una ragazza con fisico da modella e lineamenti d’angelo fosse a casa tua e avesse perso la memoria completamente e non sappia chi sia o cosa faccia lì da te?” Il viso dell’energumeno al mio fianco si aprì e gli occhi si illuminarono di una luce strana. “Mi pare ovvio fratello; ne approfitterei immediatamente!” esclamò senza ripensamenti di nessun tipo. Io sospirai pesantemente. “Ne ero certo”, dissi sconsolato. “Beh, da come la vedo io, è una cosa normale, chiunque lo avrebbe detto. Spencer siamo uomini, è nel nostro DNA!” Solo il mio DNA aveva qualche anomalia dunque. In quell’esatto momento il professor De Finis entrò in classe e il discorso terminò lì, fortunatamente aggiungerei. Due ore di chimica delle particelle scivolarono senza problemi. Ero bravo in chimica e mi piaceva come quell’uomo basso e lievemente stempiato raccontava i misteri della natura. Tre ore dopo; una pausa finalmente. Il ritrovo preferito da tutti erano le macchinette dell’istituto. Inutile dirlo, ma avevo bisogno di un panino. Io e Jason ci incamminammo e giungemmo in un minuto davanti al distributore, ma arrivati lì, ad un tratto mi fermai piantando direttamente le scarpe nelle mattonelle del pavimento. Davanti a me, c’era Angelica. Mi precipitai immediatamente da lei. “Cosa diavolo ci fai qui? Ti avevo detto di rimanere a casa!” Angelica si spaventò un po’ per il mio tono e fece un passo indietro coprendosi il viso con le mani. “S – scusa, ma avevo paura a rimanere a casa da sola, volevo rivederti ...” Il mio cuore sobbalzò pietrificato. Quella frase giunse come un fulmine a ciel sereno e quasi persi l’uso della parola. “Fratello! Allora la tua storiella era vera. Nascondevi davvero una modella a casa tua!” esplicò Jason esterrefatto. Subito fece sfoggio del suo modo d’essere e delle sue avance, ma sfortunatamente, (o forse dovrei dire fortunatamente) Angelica non ci badò, anzi, sembrò esternare timore nei confronti del mio amico. Beh, a prima vista era anche cosa normale. Non era certo il ritratto del principe azzurro e la sua stazza e la sua presenza facevano paura a molti. “Andiamo via”, ordinai ad un tratto. Le presi la mano e la trascinai fuori. “Spence! Cosa fai abbiamo lezione tra poco!” mi urlò dietro Jason. “Scusa amico, ma non posso lasciare le cose come sono, prendi appunti per me per favore!” Uscimmo dall’ampio portico del settore U2 e, mano nella mano, ci incamminammo verso l’ignoto. “Spencer, dove andiamo?” volle sapere la mia compagna di pazzie. “Non lo so, lontano da qui.” Avevo lasciato in classe la cartella e ogni cosa, fortunatamente ero uscito leggero, e visto che era quasi giugno, non avevo bisogno d’altro che del mio marsupio con dentro l’indispensabile. “Scusa se sono uscita senza dirti niente, ma non sapevo come rintracciarti, così ... ti ho seguito. Scusami.” Mi fermai e mi voltai. Era veramente bellissima anche con il broncio, soprattutto se quella luce calda e vagamente fastidiosa le irradiava i capelli. Un spirito celeste sotto ogni punto di vista. “Non fa nulla, non ti preoccupare.” Sospirai ancora. “Avrai fame, che ne dici se mettiamo qualcosa sotto i denti?” Angelica sorrise come non aveva mai fatto; gli occhi gli si aprirono e il viso intero le si illuminò. “Sì!” Mi afferrò il braccio e lo strinse a sé con allegria e forza, e insieme, ci incamminammo verso il primo locale che avremmo incontrato sulla nostra via che conduceva al nulla. Trovammo una simpatica trattoria poco distante dalla strada principale, e insieme pranzammo allegramente. Sembrava un vero appuntamento. Il tutto partito dal nulla, con una perfetta giornata tipo all’università, era sfociata in un appuntamento con una ragazza magnifica e sconosciuta. In molti si girarono per vedere la ragazza al mio fianco, e più di una coppia si voltò con invidia per ammirare colei che avevo accanto. Pian piano, il mio cuore di pietra si stava rompendo ... per un angelo incontrato meno di dodici ore prima. Dopo pranzo, verso le cinque del pomeriggio decisi di terminare quella gita in grande stile. “Vieni con me.” Tagliammo la strada e imboccammo una decina di stradine secondarie che pochi conoscevano, e dopo venti minuti, giungemmo in un magnifico parco. Era grande e coperto di verde. Gli alberi rigogliosi ondeggiavano placidi sotto una piacevole brezza estiva e uno specchio d’acqua rifletteva un motivo a mosaico del tutto. Veramente magnifico e suggestivo. “Ti piace?” domandai aggrappandomi alla ringhiera che proteggeva il lago. “Incantevole, veramente magico”, ammise in contemplazione. Si avvicinò a me e insieme ci sedemmo su una panchina. “Amo veramente i paesaggi come questi, incontaminati e pieni di vita”, disse Angelica. “Allora vedi che abbiamo recuperato un frammento della tua memoria?” scherzai io. “Già, così sembra”, replicò l’angelo ridendo leggermente. “In passato, andavo tutti i pomeriggi a giocare in un parco vicino casa, era esattamente come questo”, resi noto in ammirazione della natura. “Mi sembra ... che anche io ero solita giocare in un parco. Mi sembra che ... il mio divertimento preferito fosse ... giocare con la sabbia e le altalene”, esclamò pensierosa. A quel punto scattai in piedi, spalancai la bocca e un sudore freddo e incontrollabile mi pervase. “Non è possibile!” Le presi le spalle e la scossi leggermente domandandole: “Dove abitavi prima? Possibile che da bambina abitassi in una cittadina chiamata Lancaster?”
“Non mi ricordo”, rese noto lei leggermente spaventata dal mio repentino cambio d’umore. “Sicura?” insinuai. “Magari se ti sforzi leggermente potresti ricordare!” Per me era importante, perché qualcosa nel mio cervello si stava attivando. Possibile che quella ragazza fosse la bambina della mia infanzia? Colei che non vidi più? In fondo, la mia città natale non è lontana da San Diego, magari si era trasferita e solo ora siamo riusciti a tornare insieme. Dovevo saperlo. Ad un tratto però ... Angelica si prese la testa con le mani e le spalle le cominciarono a tremare vistosamente. “La mia testa! Mi fa male!” Immediatamente la liberai di riflesso. “S – scusami, non volevo forzarti.” Pian piano Angelica si riprese, ma il suo tremolio si spense solo cinque minuti dopo. Le avevo chiesto evidentemente troppo. “Torniamo a casa. Si sta facendo tardi.”
Quando aprii gli occhi, ero in strada. Me lo ricordavo benissimo quel viale, era la strada dirimpetto a casa mia. Ad un tratto, mentre ero in contemplazione di quel ricordo, una macchina rossa mi passò di fronte e sfrecciò rapida oltre la mia persona. Iniziai a corrergli dietro. Urlavo un nome a squarciagola; ma purtroppo, non riuscivo ad udire nulla, la mia voce era soffocata dal silenzio. Tendevo la mano verso quella vettura e gridavo sempre più forte, piangendo. Ad un certo punto, prima che la macchina scomparisse dietro l’angolo, un corpicino piccolo e biondi riccioli si sporsero oltre il finestrino per metà abbassato. “Spencer!!” Riuscii a udirlo bene, ma solo il mio nome venne pronunciato nel mio sogno. Un lampo dorato seguì, per spegnersi solo dopo quel semaforo. Mi svegliai. Ansimavo e gocce di sudore mi grondavano dalle guance.
“Ancora quel sogno ...” mi passai la mano sulla fronte, ma scoprii che lì non ero bagnato. La passai sotto gli occhi, ed ecco che il sudore abbondava. “Ma che diavolo!” Non era sudore, erano lacrime. Stavo piangendo! Poggiai la testa sul cuscino e pensai. “Cosa mi sta succedendo in questi giorni?” Mi accorsi poi che le lacrime sgorgavano ancora fuori controllo e cadevano copiose sul cuscino. Ma ciò che veramente mi sorprese, lo appresi poco dopo. Avvertii un peso sul mio addome. Mi voltai, e con mio sommo stupore vidi Angelica accanto a me, sdraiata sul letto. In quel momento di smarrimento, non sapevo come comportarmi. Ero come in trance e la mente mi si era svuotata di tutto. Quando angelica si sarebbe svegliata, io sarei già stato lontano. Le avevo lasciato un biglietto sul tavolo accanto alla colazione: Sono andato all’università, non cercarmi. Spencer. Me ne andai sgattaiolando fuori come un ladro; mai avrei creduto di poter fare una cosa tanto indecorosa. Ad ogni modo, dovevo riportare un po’ di equilibrio nel cervello, e rimanere fuori per prendere aria. Le tre ore di università non le feci col cervello sulle spalle. La presenza del mio corpo era accanto a Jason come sempre, ma il cuore e la mente erano altrove, ovunque quella ragazza non sarebbe mai arrivata. Solitudine e riflessione: due parole di cui avevo un disperato bisogno. Dopo aver finito di “Studiare”, pranzai alla mensa dell’istituto, e passai buona parte del pomeriggio al parco; lo stesso in cui il giorno prima avevo portato Angelica. Riflettevo e pensavo, pensavo e mi scervellavo. Facevo la spola tra la panchina vicino al laghetto e le altalene dall’altra parte del parco. Mi dondolavo piano pensando all’infanzia, cercavo di focalizzare quel volto sognato più volte e mai afferrato appieno. Possibile che fossero la stessa persona? Possibile, ma era davvero questo ciò che mi era successo? Ritrovare quella persona a distanza di così tanti anni e non sapere nemmeno se lei sia davvero lei? L’amnesia poi era strana e complicava le cose. Non so se sarebbe mai passata, ma dovevo fare di tutto affinché Angelica riacquistasse i ricordi perduti; e magari ... i miei avrebbero seguito la stessa strada. Erano le sei circa quando decisi di fare ritorno a casa, Angelica sarebbe stata molto in ansia per me, ne ero sicuro. Decisi così di comprare qualcosa per cena. Non conoscevo i suoi gusti, ma per certo un po’ di carne e qualche patatina fritta non le avrebbe rifiutate. Dopo una rapida rapina al supermarket intrapresi la via di casa, quando ... “Ei tu, hai un minuto?” mi domandò una voce da dietro le spalle. Mi voltai e trovai un tizio con un occhio nero e un ematoma sulla guancia che mi guardava in cagnesco. “Tu chi saresti? Scusa ma avrei una certa fretta”, dissi io ricominciando a camminare. Ad un tratto una mano mi afferrò forte il polso. “Allora non hai capito amico, ho bisogno di parlarti.” Immediatamente da un vicolo vicino spuntarono altri cinque brutti ceffi, brutti e con sorrisi poco rassicuranti sui visi. “Si può sapere chi diavolo saresti tu? Non ti ho mai visto”, asserii. “Strano, l’altra notte non avevi avuto bisogno di conoscere niente prima di farmi questo”, ribeccò il tizio di prima mostrando l’occhio nero e l’atro ricordino bluastro. “I teppisti del vicolo! Quello che stavano importunando Angelica!” esclamai nella mente ricordando il tono di voce di colui che mi parlava. Riconobbi successivamente anche l’altro elemento quando esternò ghignando: “Non ci è piaciuto come ci hai trattato l’altra sera ... preparati a ricevere la tua ricompensa con gli interessi.” Feci involontariamente un passo indietro, sapevo perfettamente cosa sarebbe accaduto; soprattutto perché in quel momento l’isolato era deserto. Venni immediatamente afferrato per il collo e trascinato nell’oscurità. “Lasciatemi canaglie! Ve la farò pagare cara!” infuriai cercando di liberarmi dalla calca venutasi a creare. Caddi a terra di schiena e un cassonetto mi accolse rovesciandomi addosso una montagna di rifiuti. I miei aguzzini risero a crepapelle vedendomi in quello stato. “Esattamente il posto più consono per un rifiuto come te”, incalzò il primo delinquente. “Maledetto!” dissi digrignando pugni e gengive. Partii all’attacco con il pugno teso contro la prima anima che incontrai, ma venni facilmente intercettato e abbattuto nuovamente. “Oh, abbiamo anche voglia di combattere ...” Altra risata. Uno del gruppo tirò fuori un piede di porco, mentre il suo vicino esibì un tirapugni. Un brivido atroce mi scese lungo la schiena portando via con se buona parte del mio coraggio e voglia di oppormi all’inevitabile. Alla fine, colui che mi aveva rivolto la parola per primo, tirò fuori dal gilet di jeans una lunga catena. La alzò alta sopra la testa e urlò: “Preparati a ricevere la tua punizione!” Chiusi gli occhi senza avere il coraggio di vedere il volto della morte. Qui si vedeva il vero volto di un uomo, nei momenti precedenti all’epilogo; durante quei pochi istanti che avrebbero portato via qualcosa di essenziale, come ad esempio l’esistenza. Confesso che per tutta la vita ho cercato di far credere agli altri che il pensiero della vita oltre la morte non mi interessasse, e che non mi faceva paura la triste signora dal nero mantello, ma ... ora che quasi riuscivo a vedere la sua falce, non potei fare altro che pregare. “Che qualcuno mi salvi ...!” Il braccio calò bruscamente. Era finita. “Fermo!” l’energumeno si bloccò all’istante e gli altri scagnozzi con lui. La catena ciondolò ad un passo dal mio naso. Potei udire perfettamente il suo stridulo e sinistro suono, ma non la sua forza schiacciante; fortunatamente direi. Aprii gli occhi, e con sorpresa scorsi la persona che più di tutti mai avrei voluto vedere. “A – Angelica! Che ci fai qui? Scappa!” ordinai. “Oh, guarda chi si è aggiunta”, asserì il bestione. Mi lasciò cadere a terra e si diresse sulla povera ragazza con passi pesanti e gonfiando il petto più che poté. La gracile creatura arretrò di un passo, ma si dimostrò molto coraggiosa a non mostrare emozioni. L’armadio le prese il mento e la osservò con fare animalesco. La mia rabbia non poté più essere sedata, e allora esplose. Urlai e con la forza della disperazione mi avventai contro il mio nemico. Subito altri cercarono di bloccarmi, ma fu inutile, atterrai chiunque mi si parava davanti con una carica bestiale che mai avrei pensato di avere. Piegai le falangi e strinsi il pugno destro pronto per abbattere quel mostro. Tuttavia, lui fu più rapido di me e con una torsione del busto mi colpì in pieno volto con un montante durissimo. Volai indietro come un sacco di patate, e un pugno al ventre mi atterrò definitivamente. “Spencer!” urlò Angelica cercando di raggiungermi. “Stai buona, abbiamo qualcosa da finire io e te”, disse prendendole il braccio. “Lasciami andare!” esternò lei, e con forza tirò uno schiaffo al personaggio, infierendo anche con le unghia lunghe. Un altro urlo si levò e il gorilla barcollò indietro con la faccia tra le mani mentre iniziava a grondare sangue. Angelica si piegò su di me e cercò di sollevarmi, ma non servì, perché nuovamente il bestione tornò alla carica. Ghermì la sua preda e in uno scatto d’ira mista a disprezzo scaraventò Angelica contro il muro. Colpì la testa, e la giovane si accasciò a terra priva di sensi. “NO! Angelica!!!!” gridai al colmo della disperazione. “E` solo colpa tua se è accaduto!” tuonò il neo assassino. “Se tu non fossi sopraggiunto quella notte nulla sarebbe accaduto! È colpa tua se ora questa ragazza è morta!” Tremava vistosamente per via dello shock e della rabbia ancora zampillante. Io ero a terra e non potevo muovermi, ma se solo avessi avuto ancora energie in corpo ... avrei fatto in modo che nessuno mi potesse fermare. Il personaggio riprese la catena e tornò ad occuparsi di me. “Ora la raggiungerai ... così almeno potrai stare a lei e conoscerla meglio ... nell’altro mondo!” Denti digrignati e ancora voglia omicida nei suoi occhi scuri e scavati. Voleva completare il suo disegno, anche se il finale era stato abbondantemente cambiato. Ancora una volta mi ritrovai ad un passo dalla morte, ma ... ancora una volta, un miracolo mi salvò. Una luce bianca folgorante si manifestò davanti a me, una luminosità paradisiaca, come se il paradiso stesso mi stesse per accogliere. Non sapevo se stessi sognando o se fossi ancora sveglio, ma non riuscii a vedere altro se non una sagoma immacolata che avanzava, e il mio pseudo assassino fermo, chino su di me immobile. Un attimo dopo, quest’ultimo venne violentemente sbalzato lontano dalla mia vista e un vento caldo disperdette il pericolo oltre me. Un secondo, e anche gli altri personaggi subirono lo stesso trattamento, divenendo quadri appesi al muro del vicolo. “Cosa diavolo è?!?” sentii urlare. “Non lo so, ma mi sembra un fantasma! Via!!” Un momento dopo, tutti quanti scomparvero e rimasi solo. Il silenzio e la solitudine; il loro dolce canto lo avevo dimenticato. Ad un tratto, udii una voce gentile e calda chiamarmi. Mi voltai verso quel suono simile ad un flauto, tuttavia gli occhi mi si chiudevano e un’ombra non nitida mi separava dalla realtà. “Spencer ...” udii ancora. Avvertii poi chiaramente una mano sollevarmi la testa dalla polvere e in seguito la nuca venire poggiata su di un cuscino, caldo e suadente anch’esso. La luce chiarissima tornò, forse perché stavo pian piano riprendendo il controllo del corpo.
“Chi sei?” dissi incantato. “Va tutto bene ora, sono con te.” Infine, riconobbi il volto di Angelica.
Mi guardava con amore e gentilezza e mi accarezzava i capelli radi con la mano mentre riposavano sulle sue ginocchia. “A – Angelica? Ma tu ...” balbettai sotto shock. Lei non disse nulla, accarezzava il mio volto e sorrideva. Mi accorsi che il dolore pian piano passava, e il sangue che esibivo sul volto veniva riassorbito e le ferite risanate. Aprii gli occhi definitivamente e le energie bussarono nuovamente alla mia porta. Osservai. La luce e quel chiarore provenivano dalla ragazza di fronte a me! Mi alzai di scatto sbilenco e mi allontanai di un passo. Misi istintivamente una mano sulla bocca per frenare l’urlo che stavo per emettere a causa della sorpresa. Angelica era davanti a me, magnifica e bellissima come sempre; non era ferita e nemmeno un capello era fuori posto. Solo che ... indossava una lunga veste bianca splendente e una corona di fiori sulla testa; ma la cosa che più catturò la mia attenzione, erano due oggetti. Due grandi e candide ali bianche sulla schiena. Scrutai prima loro con stupore, ma poi esaminai avidamente l’insieme con aria smarrita. Possibile che ... Angelica fosse realmente ... un angelo? No, era solo una stupida messa in scena, qualcuno aveva orchestrato per il meglio ogni cosa fin nei minimi dettagli. Forse Jason, magari David, o ... chissà chi altro. Non potevo, e non volevo crederci. “Spencer, stai bene?” Mi domandò l’essere mascherato. Non risposi subito, le emozioni si accavallavano ed erano troppe. “Vedo che sei alquanto sorpreso”, rise lei. Annuii semplicemente. “Spencer, io sono quello che vedi”, esclamò indicandosi con le mani. “A – allora tu ...” farfugliai ancora. “Ho ritrovato la memoria Spencer”, aggiunse vedendo la mia titubanza. “Quel colpo alla testa mi ha fatto ritrovare i ricordi e ogni cosa perduta.” Silenzio snervante da ambo le parti. “Non ci capisco più niente.” Angelica rise nuovamente. “Sai, la missione accennatoti, ho ricordato anche questo e il motivo per cui sono venuta in questa città. Eri tu il mio motivo, eri tu il dovere che dovevo assolvere”, asserì con tranquillità e solarità. Il chiarore aumentò e quasi mi costrinse a proteggermi con la mano. “Cosa vuoi dire?” domandai. “Sono stata impedita e attaccata al mio arrivo sulla terra. Dopo quell’esperienza persi ogni cosa, in particolar modo la memoria e i miei ricordi. Quando poi mi salvasti e mi portasti da te, una minima porzione del totale riaffiorò, ma dovetti attendere a questo momento per concludere la missione e riappropriarmi di quanto smarrito”, rese noto. “Di cosa si trattava?” volli sapere. “Ricambiare il favore”, esternò lei raggiante. “Che favore?” chiesi. “Una gentilezza mostratami tanti anni fa, e che non ero mai riuscita a ricambiare.” Fece un passo avanti e si accostò al mio viso, un angelo sotto ogni punto di vista. “Spencer, io ora devo andare.” Il mio cuore si fermò e andò in catalessi. Non seppi dire il perché, ma sentivo un dolore lancinante trafiggermi. “C – come andare? Mi lasci così di punto in bianco?” Lei si rattristò lievemente, ma riuscì subito a ritrovare il sorriso. “Purtroppo sì, ma non crucciarti, io sarò sempre con te e ti proteggerò in ogni momento. Mi sentirai vicina nei momenti bui e accanto nei giorni del bisogno; sarò il tuo ... angelo custode.” Lei mi abbracciò forte e un calore immenso, non umano, mi invase. Mi sentii in paradiso, con lei accanto a mostrarmi i suoi cortili. “Grazie per aver condiviso ogni cosa, grazie per avermi salvato, grazie per avermi dato il tuo amore e la tua amicizia, e ... grazie anche per i bei ricordi che ho di noi due. Non li scorderò mai. Questo volevo dirti, ringraziarti per tutto e ...” Di punto in bianco, Angelica si avvicinò maggiormente e mi baciò. Il tifone delle emozioni mi rapì di nuovo. Calore, amore, felicità, eterna gioia e altro che non saprei come dipingere. Due lacrime argentee mi scivolarono dagli occhi stanchi e avidi di felicità. Paradiso eterno e letizia senza fine. Era questo che significava morire e andare in cielo? Forse sì, perché era così che mi sentivo, ed era questo che provavo e che volevo provare. Quando ci separammo, scoprii che tra i sorrisi di Angelica e il mio da ebete, anche lei versava lacrime. Mi abbracciò nuovamente. “Questo è il secondo bacio che ti do, ma il secondo è meglio del primo. Grazie, per tutto ... Spence.” Chiusi gli occhi e serbai nel cuore quelle emozioni intense. Tuttavia, ad un tratto sentii che dalle mie braccia avvinghiate nelle sue spalle, qualcosa stava venendo a mancare, pian piano, qualcosa mi stava venendo sottratto. Spalancai le palpebre e non vidi più nessuno, Angelica era sparita, e solo poche particelle luminose rimanevano di lei, particelle che poi salirono verso il cielo come faville di un fuoco. L’avevo a prima vista persa per sempre. Caddi in ginocchio e piansi urlando, proprio nel mentre una leggera pioggia iniziava a scrosciare mitigando le mie lacrime. Non sapevo cosa pensare né cosa dire, ero sconvolto e incredulo. Angelica era davvero un angelo, e da quello che avevo capito, era anche la bambina della mia fanciullezza. Durante il ritorno a casa, mani in tasca e capo a terra, non riuscii a formulare pensiero, e giunsi al mio appartamento con la sola forza dell’inerzia. Il mio pianto ancora non cessava, ma le lacrime stavano scemando, forse per via del mio corpo completamente fradicio che le aiutava ad allontanarsi, o forse perché non ne avevo più; le avevo versate tutte. Ad un tratto, giunto davanti al portone, ad attendermi trovai l’ennesima sorpresa di quel giorno colmo di eventi straordinari. “Mamma? Cosa ci fai qui?” domandai stupito. Era una donna piuttosto bassa, carnagione chiara, occhi uguali ai miei e capelli ricci rossastri. “Era da tanto che non ci vedevamo figliolo”, iniziò lei avvicinandosi aprendo l’ombrello. “Avevo voglia di vederti.” Socchiusi la bocca dalla sorpresa, ma non dissi nulla. “Vuoi farmi entrare oppure dobbiamo soggiornare qui per tutto il pomeriggio?” scherzò mia madre con tono ironico. Ci accomodammo in soggiorno, lei allegra e solare, io invece cadaverico e pallido. “Ti vedo dimagrito e piuttosto pallido Spencer, sicuro di mangiare abbastanza?” domandò preoccupata. “Mamma, qual è il vero motivo della tua visita? Non sei mai venuta a trovarmi in questi anni di università, poi di punto in bianco piombi qui solo per fare due chiacchiere con me? Dimmi, cosa c’è?” Mia madre chinò la testa imitandomi, e sincera asserì: “Sai, ci sono momenti nella vita, in cui una madre capisce che suo figlio possa passare periodi difficili. Non so cosa sia accaduto, ma sento dentro che quel momento sia arrivato. Dimmi Spence, c’è qualcosa che non va a scuola o nella vita?” domandò la donna con apprensione e sincera preoccupazione. A quella dichiarazione, la mia depressione aumentò di profondità e di dolore. Pensai all’intera faccenda; al primo incontro, alla splendida vacanza avuta con lei, e alle parole vibranti che Angelica mi rivolse prima ... della sua scomparsa. Passarono diversi minuti di silenzio, attimi di stallo e di indecisioni, attimi di verità taciute e di emozioni nascoste. Come potevo raccontare ciò che ho vissuto? “Vado a preparare una cioccolata calda, con questa pioggia e questo freddo non ci farà male”, esclamò notando la mia scarsa voglia di parlare. “Mamma, ti ricordi la mia infanzia?” Lei si voltò e cambiò seppur di poco espressione divenendo più solare. “Eri un veri birbante”, raccontò. “Facevi di tutto pur di scappare da me ed andare a divertirti con i tuoi amichetti. Sai quanto ci facevi preoccupare, e quante sgridate e botte da tuo padre.” Sorrise nuovamente. “Ti ricordi di una mia amica di quegli anni? Una bambina bionda con capelli lunghi e ricci?” L’espressione della donna davanti a me mutò ancora ritornando oscura e mostrando un pizzico di sorpresa. “T – ti ricordi di lei?” Annuii serio. “Spence, non ho voglia di parlarne.” Si rincamminò verso la cucina. “Mamma, è importante. Voglio sapere di lei.” Sospirò colpita e stordita dalla domanda, ma dopo aver colto nel mio volto l’intenzione di conoscenza, non poté opporsi al richiamo. Sospirò chiudendo le palpebre per raccogliere le idee. “Era figlia della nostra vicina a Lancaster, la mia migliore amica. Voi due siete stati amici per la pelle per molto tempo, giocavate sempre insieme e durante le belle stagioni stavate sempre al parco a divertirvi con altri bambini. Avevate circa quattro – cinque anni.” Mia madre si interruppe bruscamente e il suo umore divenne molto simile al mio. “Accadde qualcosa?” incentivai io. “Lei è sempre stata cagionevole di salute, e per via delle necessità legate alle sue esigenze, la famiglia decise di trasferirsi in un’altra città.” Altra triste pausa. Tu la prendesti malissimo e piangesti fino alla fine. Eravate molto legati e quando apprendesti la notizia non mangiasti e non dormisti per un giorno intero, piangesti e basta. Ci facesti preoccupare moltissimo”, sussurrò. “Scusami.” Mia madre sospirò e mi abbracciò. “Rincorresti la loro macchina fino allo spasmo per impedire l’allontanamento di quella famiglia, ma inutilmente. Non la rividi più e perdemmo i contatti con loro.” La storia terminò lì. Eppure ... qualcosa nel mio cervello gridava che un dettaglio mancava. “E` morta, dico bene?” La donna si alzò di scatto e si allontanò involontariamente da me paralizzata dalla mia dichiarazione. “Come puoi dirlo?” volle sapere.“Mamma, dimmi la verità, per favore”, supplicai con un filo di voce. “Durante il viaggio, lo stesso prima descritto, un pirata della strada tagliò la strada alla loro vettura.” Pausa straziante. “Fu una carneficina, l’intera famiglia morì sul colpo. Inutile fu la corsa in ospedale.
La bambina perì durante il tragitto, ma durante quei pochi attimi, quando appresi la notizia e mi precipitai in ospedale, i medici mi dissero che non gridava altro che un nome: Spencer.” Un brivido gelido mi corse lungo la schiena e la pelle d’oca mi colse impreparato. “Non ci credo ...” Mia madre mi abbracciò nuovamente, esattamente come fece Angelica mezzora prima. “Spencer, mi dispiace di avertelo tenuto nascosto, ma era meglio così. Eri troppo piccolo per comprendere, e non volevo che la tua infanzia fosse macchiata da una tragedia simile. Perdonami, ti prego.” Le lacrime tornarono a bagnarmi gli occhi. Non le frenai e le lascia scorrere libere. Quella era la vera verità dunque, l’intera storia era ora davanti a me: una tragedia che veniva riportata a galla da una volontà superiore di rinascita e affetto. La voglia di ricambiare un’amicizia stroncata prematuramente e un rapporto interrotto da un evento funesto. Il favore da ricambiare accennatomi da Angelica, non era il salvataggio da quei teppisti quando ci conoscemmo, ma la gratitudine e l’amicizia mostratagli da bambina durante la nostra giovinezza. “Come si chiamava?” volli sapere. “Angelica. Il nome rispecchiava pienamente quella bambina, era veramente bellissima, un amore. Se fosse cresciuta, sarebbe diventata una creatura splendida.” Mi asciugai gli occhi e con un sorriso e gli occhi limpidi affermai: “Hai ragione, era veramente un angelo.”

"Un collier di diamanti, un'ossessione" di Simona Pace

 
Punteggio 160/250  (6.4 voto)

Per scheda clicca: Qui

Prologo.

Una stanza. Illuminata soltanto dalla luce della luna piena, penetrante da una finestra che richiamava antichi motivi gotici. Un uomo, seduto elegantemente su una poltrona,in mano un calice di cristallo finemente lavorato, offertogli dal suo servitore . Lo muove appena ed il liquido si agita, ondeggiando ipnotico, prima di finire tra le sue labbra dischiuse. Assapora la bevanda, che lenta gli scivola giù per la gola , e se ne disseta. Sentendosi , quasi subito rinfracato.
- monsieur - azzardò , servile - monsieur -
- Claude, cosa c'è?- continuò a bere, prima di spostare lo sguardo su un dipinto appeso alla parete di fronte.
Anche non guardandolo attentamente, lo conosce a menadito. Una dama, vi è raffigurata. Una donna bellissima, in abiti settecenteschi, con i capelli nero corvino acconciati in un morbido ed elegante chignon e gli occhi , che sembrano sorridere, verde muschio. Scintillanti, data la maestria del pittore a quel tempo.
L'uomo , sorridendo triste continuò a guardarla.
- Jeanne - mormora prima di mordersi le labbra fino a farle sanguinare - oh Jeanne! perchè...non ci sei più? Perchè? -
- signore - gli si inchina davanti - sono passati anni ormai...-
- credi non lo sappia, Claude!?- sbottò all'improvviso, dandosi poi un contegno.
Dopotutto, è un conte. Raffinato ed elegante, non è nella sua natura lasciarsi andare, e farsi travolgere dalle emozioni.
- credi non lo sappia, Claude? - ripetè alzandosi.
Inizia a camminare per la stanza passi lenti e passi veloci si alternano.
- pardonnez-moi monsieur -
- non preoccuparti, Claude - gli risponde e si avvicina ad una teca di vetro, sotto la quale in bella mostra vi è una collana di diamanti.
- maledetta collana! - la guarda, nonostante, ipnotizzato e rapito dalla sua bellezza - esiliati dalla nostra madrepatria, arrestati, messi al buio in una cella, processati...marchiati! - il tono della sua voce è leggermente freddo, rancoroso - tutto per questa collana!-
- monsieur, forse dovreste....dimenticare - azzardò nuovamente - sono , ormai, passati anni da allora...-
- taci! - lo guardò infastidito.
Claude rimane paralizzato, quasi, da quello sguardo, ne ha paura. Ma è normale, e lo sa. - sissignore...- risponde pentito.
Il conte lo guarda muovamente e gli ordina di lasciare la stanza.
La porta si chiude e lui rimane solo. Guarda ancora la collana, e guarda nuovamente il dipinto. Poi si lascia cadere sulla poltrona, riprendendo in mano il calice. Si disseta e pensa.
Anni. Vero, sono passati anni...e secoli. Portarsi dietro quella collana, per punirsi. Punirsi perchè lui è ancora vivo mentre Jeanne, la sua Jeanne...no.

Poi.....
" è senza dubbio il destino" disse a se stesso, più che a Claude. Guardava e rimmirava la foto di una donna, ancora un pò ragazzina. Un caso unico, e raro. Lei sorrideva, con gli stessi capelli nero corvino, gli stessi occhi neri con una punta di verde. Come se Jeanne fosse rinata in quel corpo.
Già, un caso del destino che lui avesse deciso di comprare , seppur per noia , il vecchio maniero Saint Micael diroccato nel centro del paesino.
Guardò nuovamente la foto e decise. Quella donna sarebbe stata sua, ad ogni costo!


1

Quella mattina di inizio settembre, il sole era malato. Appariva sporadicamente da dietro le nubi, che leggere e lente viaggiavano nel cielo.
L'aria fresca ma umida, memore dei temporali e della pioggia nella notte appena passata.

Una ragazza camminava a passo svelto presa dai suoi pensieri, e cercando di togliersi di dosso la sensazione di sentirsi osservata.
Voltando per un angolo, si scontrò con qualcuno e sarebbe finita per cadere, se una presa, forte e decisa per il polso non l'avesse frenata.
Alzò lo sguardo per vedere chi era. Un uomo. Slanciato e muscoloso senza esagerare, a primo acchito alto 1'90.
I capelli un pò lunghi, neri e ondulati, legati in un codino alla base della nuca, gli incorniciavano il viso.
Un viso perfetto, forse un pò troppo a parer suo; le labbra non molto sottili, sotto un naso liscio e nobile. Ma furono gli occhi a colpirla.
Erano blu acquamarina, ma scuri come il mare in tempesta.
- le chiedo scusa, mademoiselle - le sorrise appena, lasciandole poi il polso.
Lei era rimasta, un tantino imbambolata da quel sorriso - come?- chiese incredula.
- je vous demande pardon, mademoiselle - la guardò - non vedevo dove camminavo -
- oh no! Dovrei chiederle scusa...mi perdoni...ero un pò persa nei miei pensieri...-disse sperando che il suo interlocutore non udisse il battito improvvisamente accelerato del cuore - sarei caduta se non fosse stato per lei...-
- mi perdoni nuovamente, mademoiselle. Non mi sono presentato, Louis Marc Antoine De Villette - disse con un cenno del capo - con chi ho l'onore di parlare, se mi è concesso?- le porse la mano.
- Licia Manfredi , piacere -
- enchantè -posò la punta delle labbra sul dorso della mano.
A quel tocco, Licia , sentì un brivido. Piacevole.
- devo...devo andare... -ritirò gentilmente la mano - mi scusi -
- prego mademoiselle - si scostò - al prossimo incontro, allora -
Lentamente si allontanarono l'uno dall'altra.
" che occhi " pensò lei mentre camminava " ...che tipo...Mademoiselle?Enchantè...bah..." salì su un marciapiede " ma quel nome...dove l'ho sentito?" continuò a pensare ferma davanti ad un portone, prima di varcarne la soglia. " bellissimo...che occhi"
Salì almeno due rampe di scale, prima di fermarsi nuovamente davanti ad una porta, poi entrò.
- nonna , sono io....-

L'anziana donna, la guardava di sottecchi. Sua nipote era una bellissima ragazza che era appena entrata nel mondo degli adulti.
Era bella e lo ammetteva. Alta più o meno 1'70 , i capelli ondulati e sciolti sulle spalle erano nero corvino. Gli occhi, verde muschio, segno inconfondibile che aveva ereditato da lei.
Però quel mattino era un pò stranita, e seppur ancora più bella. La guardò ancora, chiedendosi come mai non riuscisse a decifrarne lo sguardo.
- tesoro mio...oggi sei diversa...- fermò l'uncinetto ancora una volta - è successo qualcosa?-
- no... solo un incontro...- divagò.
- non avrai incontrato ancora Nico?-
Nico, il ragazzo in questione , l'aveva fatta soffrire e non poco. Ogni volta che lo vedeva, il suo cuore batteva impazzito, e la sensazione di mille farfalle le riempiva lo stomaco.
Ma chissà , per quale motivo, ogni volta si rifugiava dalla nonna in lacrime. Un amore non corrisposto, e le faceva male.
- no, non era Nico -
- lo spero...quel ragazzo è un poco di buono! - borbottò riprendendo il lavoro - spero bene, non fosse lui!-
- ripeto nonna, non era Nico!-
- allora chi era?- continuò la nonna, curiosa - tanto interessante da lasciarti così sovrapensiero?-
- un uomo sulla trentina...credo - la guardò - oh nonna! Aveva degli occhi blu bellissimi! Sembravano come il mare in tempesta...e poi...- si legò velocemente i capelli - slanciato, un sorriso da....mozzare il fiato...-
- una specie di adone...- le sorrise la nonna.
- un pò all'antica...però -
- all'antica?-
Licia annuì - anche se per iniziare gli sono finita addosso, ed è stato lui a chiedere scusa. Ha usato il baciamano...-
- beh...c'è ancora qualcuno...-
- poi in perfetto francese mi ha detto :" je vouz demande pardon, mademoiselle" -
- mhmm - annuì la nonna, assorta nel suo lavoretto - all'antica e raffinato - sospirò - come dicevo...non ce ne sono più uomini così! -
- già - la guardò - chi usa ancora il baciamano? E' roba da favole secondo me...altri tempi!-
- ti ha detto come si chiama?-
- Louis Marc....credo - si picchiettò sotto il mento - un nome lungo a dire il vero...-
- Licia! - la guardò la nonna, divertita - ma come, ti ricordi perfettamente tutto ed un nome no? - le sorrise bonaria - troppo persa in quegli occhi blu tempesta?- continuò a stuzzicarla.
- ma cosa dici!- arrossì - è il nuovo giornale? - lo prese per cambiare discorso.
- hanno comprato il castello Saint Micael - le disse.
- cosa, quel vecchio maniero? - aprì il giornale - e come mai?-
- la banca voleva demolirlo - continuò la nonna - la solita mancanza di fondi...solo perchè il sindaco si diverte a spendere i " fondi" solo per i suoi divertimenti....-
Licia la guardò un attimo - tanto quel cimelio non funzionava nemmeno come museo! Che sarà mai...-
- il sindaco e i suoi divertimenti! - borbottò - solo per aprire nuovi locali, per andare praticamente a donne ..e poi?Chiuderli dopo nemmeno sei mesi! Ah, gli uomini! -
- ce l'hai con un uomo solo, nonna....-
- essere senza cervello!- agitò il ferro.
- ancora con la vecchia storia?- le sorrise.
La nonna fece finta di niente, stranamente assorta - mettere in "palio" la sua ragazza...idiota!-
- beh nonna, prendila così...- la guardò da sopra le pagine del giornale - se non l'avesse fatto....tra te e il nonno non sarebbe nato niente...no?-
La donna sorrise - dettagli....continua a leggere...-
- chiunque ha comprato il castello, in fondo ci ha fatto un favore...no?- riprese a leggere - sarà di sicuro un vecchio eccentrico pieno di soldi...- un attimo per voltare la pagina, che arrossì di botto.
- Licia, tutto ok?-
- è lui!- esclamò.
- lui chi?-
- il tipo...-
- il vecchio eccentrico?-
- si! No...cioè si...insomma! Il tipo che ho incontrato è lo stesso che ha comprato il castello - le mostrò la pagina di giornale.
Nella foto, il sindaco stringeva come di consueto la mano ad un uomo.
- un adone, Licia...- le sorrise.
Intanto la ragazza leggeva e borbottava - un conte...addirittura....-
- un bell'uomo...-
- si...-bisbigliò, mentre arrossiva e ripensava a quegli occhi blu ed al brivido di quel contatto.



2.

Il continuo rumore meccanico della sveglia, la disturbò. Licia allungò il braccio nel vuoto, tastando fino a trovare la superficie solida del comodino.
Con un gesto automatico mise a tacere il rumore ed aprì lentamente gli occhi.
Voleva crogiolarsi ancora nel letto, al caldo sotto la coperta della nonna, ma l'attendeva una giornata di lavoro. Puntellandosi sui gomiti, si sollevò.Pronta per iniziare.

Camminava svelta, quasi di corsa. Come poteva essere in ritardo? Lei, di solito puntuale come un orologio svizzero.
" Tutta colpa di quegli occhi blu!" pensò.
Nemmeno un'ora prima, l'aveva intravisto al bar mentre beveva il suo solito cappuccino.
Si era soffermata, rapita, a guardarlo. Magari per trovare qualche imperfezione, anche una piccola. Niente. L'uomo in questione era perfetto sotto ogni aspetto.
Poi quasi per noia, aveva gettato lo sguardo sull'orologio al suo polso notando solo in quel momento del ritardo.
Si era alzata, aveva pagato in fretta ed era uscita dal bar. Combattendo l'insana voglia di mollare tutto e riprendere a guardarlo.
Qualche attimo dopo, se l'era ritrovato davanti agli occhi.
- mademoiselle - le aveva sorriso - ci si rivede -
- eh?- emise imbambolata.
Possibile che facesse la figura della scema, davanti a lui?
- oh...buongiorno anche a lei conte - aveva risposto spontanea.
- conte? oh mon dieu!- le aveva sorriso apertamente - Mi chiami solo Louis - continuando guardandola.
- d'accordo Louis...- aveva detto notando solo in quel momento, quanto la voce di lui fosse suadente, persuasiva - mi dispiace...devo andare...-
- mademoiselle, dagli incontri per caso...o voluti dal destino..- aveva detto guardandola negli occhi- non si fugge -
Il cuore aveva perso un battito o due, prima di riprendere normalmente. Licia, non seppe dirlo.
- devo..devo andare - si era allontanata veloce.
Sentendo lo sguardo di lui che la seguiva.
Ed ora camminava veloce, sforzando le gambe e sentendo di tanto in tanto una fitta al fianco. Un attimo dopo valcò la soglia dell'agenzia di catering dove lavorava.

La ragazza al suo fianco la scosse un pò, per l'ennesima volta.
- Licia - la guardò - Licia, il capo ti sta chiamando...-
- eh?- guardò la collega.
Una ragazza con i capelli rosso fuoco, una serie di lentiggini sul viso e due occhi verde smeraldo. In quel momento le passava una mano davanti al viso - ho detto che il capo ti sta chiamando - la spinse verso il corridoio - muoviti -
- ok...-
Bussò ad una porta di vetro opaco, e dopo aver ricevuto conferma, entrò nella stanza.
Seduto, su una sedia girevole dallo schienale confortevole, dietro ad una scrivania molto moderna c'era il suo capo. Un uomo brizzolato, con un'aspetto abbastanza giovane nonostante i suoi cinquant'anni di età.
In quel momento abbracciava, per la vita, una donna molto più giovane di lui.
" una donna diversa..." pensò Licia " di nuovo " la guardò, ad una prima occhiata sembrava avesse almeno vent'anni di meno di lui.
Vero che la vita del suo capo non la dovesse minimamente interessare; com'era vero che il suo capo era un uomo, divorziato da anni ormai, e come uomo aveva le sue esigenze.
Ma ostentare una donna diversa ogni volta, e per di più molto somigliante all'ex moglie era tutto dire. Si vedeva che ne era ancora innamorato perso.
La voce dell'uomo la distolse - bene, eccoti qui...-
- mi hai chiamata...no?-
- ebbene si...- la guardò - non possiamo e non dobbiamo assolutamente perdere questo nuovo cliente - continuò a guardarla fissa, passandosi poi una mano tra i capelli - considerando che non bada a spese...-
- il cliente?-
- il conte , ovvio!-
Licia si trattenne dallo stupirsi." ma porca..." pensò e poco dopo le vennero in mente le parole del conte " dagli incontri per caso, o voluti dal destino non si fugge".
Sospirò, " a quanto pare no" pensò.
- Licia, mi ascolti?-
- certo -
- il conte deve organizzare una cena molto importante - le disse - e tu sei la migliore del campo...oltre al fatto che ha chiesto, esclusivamente, di te -
- capito -
- beh,che ci fai ancora qui?! vai!-
La ragazza annuì e come in trance, uscì dall'ufficio.
Un attimo dopo era accerchiata dalle colleghe.
- allora?- la ragazza con i capelli rossi le si era avvicinata.
- cosa, Jennifer?-
- cosa voleva?-
- affidarmi il solito incarico...- divagò - niente di che -
- dai, hai una faccia!-
- ok....e poi basta con le domande - la guardò.
- ok -
- per rivolgersi alla nostra agenzia, e chiedere di te...- iniziò una biondina con gli occhiali - dev'essere senza dubbio uno pieno di soldi -
- donna o uomo?- chiese Jennifer.
- uomo -
- chi?- la pregò.
Licia sorrise, tenere sulle spine Jennifer le piaceva da matti.
- un uomo ricco -
- dai - congiunse le mani - ti prego, ti prego!-
- e la smetti?-
- giuro -
- il conte...- disse noncurante.
Ovviamente l'espressione stupita della ragazza non la toccò affatto, come non la toccarono le occhiate invidiose e smaliziate delle altre.
- il conte?- la biondina con gli occhiali, scivolò quasi dalla sedia - scherzi?-
- no -
- no, dillo seriamente Licia...- una castana tutta curve, molto affabile con lei , le si avvicinò e le mise le mani sulle spalle - stai scherzando...vero?-
- no, Antonella -
Il labbro di Antonella divenne tremulo, e poco dopo gli occhi le divennero lucidi.
- non ti metterai a piangere!-
- ma è un uomo bellissimo...Così bello! Affascinante...- iniziò a dire - il capo...è....ti ha affidato un adone simile!Non è giusto!!!- piagnucolò.
- dai Anto...- sorrise.
Antonella e Jennifer erano le due che sopportava di più, a dispetto delle altre.
- chissà che carta hai giocato! - disse invidiosa una moretta con una camicia scollata, e ben truccata.
- beh, Elena non sono andata a letto con il capo....se vuoi saperlo!- la provocò.
Sapevano tutte che Elena era una che andava con chiunque pur di ottenere qualcosa.
Elena si allontanò stizzita, provocando un fastidioso ticchettio con i tacchi alti mentre camminava.
- cosa c'è Jen?-
- non puoi andare vestita così...-
- ha ragione - fece eco Antonella.
- ma dai...è solo un incontro di lavoro...- sbuffò.
- gonna e giacchetta - ordinarono perentorie.
- e poi posso tornare in jeans e felpa?-
- si si ...- divagò Jen con un gesto della mano.
- bene - emise sollevata, mentre il viso del conte le appariva più nitido che mai e le diceva " non si fugge, mademoiselle".

3.

Infine era giunta a destinazione. Si soffermò un attimo , sospirando e guardandosi. La giacchetta verdeacqua e la gonna abbinata, non le stavano tanto male...ma quelle decolletè nere con il tacco, le davano tutta un'altra aria. Non che lei non le portasse sia chiaro...ma era una ragazza da scarpe da tennis. Ecco tutto.
Sospirò nuovamente, passandosi nervosa la mano tra i capelli neri e rimase ferma davanti al cancello di ferro battuto, finemente intarsiato, guardando come se fosse la prima volta l'imponente maniero.
La facciata era in ottimo stato. " strano" pensò " sapevo che era da restaurare ancora...forse è molto efficiente". Continuò a far percorrere lo sguardo, riportando alla memoria ciò che aveva letto nella biblioteca del paese, per le ricerche della scuola.
Il maniero, in realtà un castello, era di origine normanna. Nato, subito come " corte" per i signorotti della zona, venne trasformato più avanti in un avamposto di difesa. Ancora più in avanti , negli anni , ritrasformato in corte per i nobili.
In una sala ricevimenti, in una scuola privata, ed infine in museo. Fino a quando per mancanza di fondi, era stato comprato dal conte.
Al momento, Licia, notava solo due dei quattro bastioni d'angolo; le finestre erano in stile gotico,apparivano un pò tetre e si affacciavano sul cortile interno.
Le grandi porte d'entrata, di cui le laterali chiuse e la centrale aperta, errano in legno lavorato, con i bassorilievi leggermente consunti dal tempo.
Fu, continuando con lo sguardo che lo vide. Il conte a qualche passo da lei.
Un uomo , in una elegante divisa le aprì il cancello - prego, mademoiselle - le disse.
- grazie -
- Claude, prepara il thè...nella sala....- gli disse con un cenno deciso, poi rivolse gli occhi verso di lei - prego, entri...-
Licia valcò la soglia del cancello, sentendosi osservata. Lo cacciò subito via, era lì per lavoro. Solo per un lavoro.
- come detto...- il conte le si era avvicinato senza che se ne accorgesse - dagli incontri voluti dal destino....- posò la punta delle labbra sul dorso della mano - non si fugge, mademoiselle -sorrise.
- la rivedo con piacere, conte -
- Louis - la guardò, lasciandole la mano ed affiancandola appena, mentre varcavano la soglia principale - Louis...conte è troppo formale - la guardò ancora.
- Licia - rispose - mademoiselle è troppo formale -ripetè guardandolo e cercando si sostenerne lo sguardo, evitando di perdersi in quegli occhi blu tempesta.
L'uomo le sorrise - Licia - disse con un cenno, prima di guidarla dentro al castello.

L'interno, era stupendo come ogni castello che si rispetti. La corte , principale e più grande aveva la volta a crociera; interrotta soltanto da lampadari di cristallo lavorato, tenuti sospesi da catene fini e resistenti.
Al centro una balconata, ove vi si accedeva tramite due rampe di scale di marmo una per lato; entrambe attraversate da tappeti di velluto rosso scuro.
Una serie di armature, lucide e ritte, poste vicino alle porte di ogni stanza quasi fossero lì a far la guardaia al sonno indisturbato degli ospiti.
Alle pareti, dipinti maestosi, opere di grandi maestri del rinascimento italiano.
I pavimenti su cui camminava, notò, di marmo lucido interrotti a tratti da pesanti tappeti persiani, finemente lavorati. Le stanze enormi e tutte con le volte a crociera arredate con cura; le finestre gotiche, appena celate da pesanti tendaggi scuri.
- ha restaurato in fretta - azzardò lei.
- mi sono avvalso di uomini veloci -la guardò appena,continuando a camminare - e non ho paura di sporcarmi le mani...se capisce -
- capisco -
Lo seguì in un'altra stanza ,enorme, forse quanto o più della corte principale. Ai muri, dipinti di natura morta e paesaggi. Al centro, l'attravversava una lunga tavolata di mogano lucido.
- suppongo sia questa, la sala dove risiederà la cena - disse , gettando un'occhiata veloce.
Non voleva soffermarsi troppo sulla figura del conte.
- suppone giusto - la precedette appena, scostando poi galantemente una sedia per farla accomodare.
Poi le sedette, elegantemente, di fronte. Rimanendo in silenziosa attesa, mentre Claude si facesse vivo con il thè.
Un attimo prima che iniziasse con una domanda, Claude entrò nella stanza seguito da due cameriere in divisa. Posarono il vassoio, e le tazze fumanti davanti a loro e si allontanarono in silenzio.
- mercì Claude - gli disse lui.
Con un inchino ossequioso, il servo si dileguò.

Dopo aver consumato il thè, si erano messi a parlare. Trascinando la conversazione sul lavoro da svolgere. Ma le riusciva difficile, non incontrare lo sguardo penetrante e profondo del suo interlocutore. Così, si soffermò ancora una volta per guardarlo senza insistenza. Voleva , a tutti costi chissà perchè, trovargli un imperfezione. Niente.
- a tal proposito - la voce dell'uomo la distolse - vorrei invitarla alla cena, mademoiselle - la guardò ancora una volta.
- declino, purtroppo - abbassò lo sguardo un attimo - ma devo stare dietro le quinte, ed assicurarmi che proceda come stabilito. -
- capisco - disse rammaricato - gradirei, molto volentieri la sua compagnia -
- se mi è permesso...potrei sapere il perchè?-
Già che volesse lei per quell'incarico era troppo, volerla a cena poi!
- ha tutto il diritto di chiederlo, mademoiselle - disse con un cenno del capo - è una noiosa cena d'affari...e la sua presenza,lo ammetto, mi sarebbe...d'aiuto -
- diversivo, direi...- lo guardò - ma declino,come già detto. Le procurerei distrazione, ed i suoi affari ne risentirebbero - disse sicura.
- vuol dire che troverò, certamente, una qualunque scusa per scendere nelle cucine - sorrise bonario e divertito - o la distrarrei?-
- potrei trovare, nascosta nella scusante, una nota di mancanza di fiducia...- disse senza pensarci - ma..visto che è lei il padrone...chiuderò un occhio -
- oh mon dieu! Lungi da me, mademoiselle, provocarla... e le chiedo umilmente perdono - le baciò la mano - posso sperarlo?- chiese stranamente titubante.
- vedremo - si alzò, seguita dall'uomo.
- mademoiselle, sarei veramente contrariato, se non lo facesse - l'affiancò accompagnadola nel lungo corridoio - vorrei comunque, averla a cena - la guardò - fuori dall'ambito lavorativo, sia ben chiaro...-
- conte, potrebbe non essere soddisfatto del mio lavoro - lo guardò - a che pro, prendere degli impegni futuri?-
Erano vicini al cancello, tenuto aperto da Claude impeccabile e retto.
- non dubito delle sue capacità - disse sicuro guardandola negli occhi.
- devo andare, ora...- si allontanò appena.
Quando quell'uomo la guardava perdeva il battito del cuore, non poteva e non doveva permetterselo. In primis: era il suo momentaneo contratto di lavoro; in secundis: era un bell'uomo, ergo chissà quante donne aveva per i suoi piaceri o se ne amava qualcuna.
- mademoiselle, l'ho turbata per caso?-
- oh no...- sorrise -devo andare, veramente -
- allora ci vedremo per la cena...- le prese la mano e la baciò.
Licia rabbrividì nuovamente, provando piacere in quel contatto ormai abitudinario, mentre una voce nella sua testa, nitida le diceva : "sarai mia!". Notò uno strano luccicchio negli occhi del conte, e quel sorriso perennemente seducente nell'insieme la misero in allarme.
Li cacciò infastidita, trascinata dal fascino che quell'uomo emanava.
Ormai, era alla sua totale mercè.

Quella notte, nel suo letto caldo ed il capo sprofondato nel cuscino, il viso del conte non spariva dai suoi pensieri. Il modo in cui la guardava, o le sorrideva. Il tono seducente e persuasivo della voce; il tocco delle labbra sulla sua mano che le provocavano brividi piacevoli.
Si toccò il viso, sentendoselo bollente e non dovette nemmeno posare la mano sul cuore per la conferma. Batteva così forte contro la gabbia toracica che sembrava volesse uscirne.
Poi quelle parole " sarai mia" che esplodevano di continuo.